giovedì 25 marzo 2010

Crowdsourcing mito e realtà

Nell'ansia di pensare qualcosa di nuovo (per vendere) e mistificando o estendendo, fuori tema, certe tecnologie e certi fenomeni, si corre il rischio di creare l'illusione di aver individuato dei trend dai quali si cercano poi, inutilmente, ritorni economici e culturali.

Una di queste ansie è quello che si chiama crowdsourcing o co-creazione, la metodica che apre il processo di creazione di prodotti e servizi alle masse degli stake-holders dell'azienda.

Un'idea che ha delle serie basi scientifiche (vedi gli studi di Eric von Hippel del MIT) ma, more solito, è stata in parte mistificata e in parte estesa troppo, ben oltre le sue possibilità effettive quando si ritiene che "lá fuori" ci siano migliaia di persone capaci e in grado di fornire un'idea vincente, un'innovazione che nasce dalla strada, un po' come quegli attori presi per strada dai registi neorealisti per dare un tocco di vera miseria alle storie del nostro miserabile dopoguerra.

La prima cosa da dire è che la co-creazione può essere utile in settori maturi ma ha minori probabilità di successo se si cerca l'idea completamente nuova, insomma, il popolo può suggerire modifiche e/o utilizzi diversi di quello che c'è, ma è difficile che s'immagini un qualcosa che non c'è.

Se Ford avesse chiesto alla gente cosa volesse, i consumatori avrebbero chiesto migliorie a calessi e carrozze ma nessuno avrebbe immaginato un veicolo senza cavalli.

L'altro elemento importante è la necessaria partecipazione emozionale del pubblico e questo implica che il co-creatore sia un brand-lover, cioè uno che adora il marchio e ne desidera sempre più successi, in un certo senso, è l'amore che lo spinge a suggerire modifiche e usi diversi dei prodotti/servizi o allargamenti del marchio in altri settori.

E la partecipazione emozionale la si ottiene con un lungo lavoro di brand awareness il che significa che è nell'azienda che sono stati pensati i prodotti che si vendono; dopo si potrà pure chiedere di migliorarli, ma resta la necessità di creativi e inventori interni, di un marketing non in poltrona ma in giro per il globo a capire che cosa vuole il pubblico.

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